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Gibilterra, la Rocca dello sport

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Il lungo cammino di Gibilterra

Dopo la votazione avvenuta il 24 maggio a Londra, in occasione del XXXVII congresso della UEFA, Gibilterra è stata ammessa con formula piena alla confederazione calcistica europea. La votazione è avvenuta a larghissima maggioranza, con l’astensione di soli cinque delegati, tra cui quello spagnolo. Gibilterra aveva ottenuto lo scorso ottobre lo status di membro provvisiorio e l’ammissione ad alcune competizioni internazionali giovanili, in seguito a una sentenza del Tribunale Arbitrale dello Sport nell’agosto 2011. Come avviene per Russia-Georgia e Armenia-Azerbaigian, almeno per le qualificazioni di Euro 2016 la UEFA eviterà di accoppiare Spagna e Gibilterra nello stesso girone così da evitare ulteriori tensioni tra le due federazioni. Come membro UEFA Gibilterra potrà inoltre fare richiesta d’ammissione alla FIFA e partecipare alle qualificazioni della Coppa del Mondo del 2018.

Gibilterra, un lembo di terra di meno di sette chilometri quadrati posto all’ingresso del Mediterraneo di fronte alla costa marocchina, fu conquistata dalla marina reale inglese nel 1704 durante la guerra di successione spagnola e conserva tuttora lo status di colonia inglese. Nonostante gli spagnoli rivendichino la sovranità su Gibilterra, i cittadini del piccolo territorio hanno deciso in due referendum (1967 e 2002) di rimanere colonia inglese e hanno stabilito il proprio autogoverno nella Costituzione del 2006, demandando al Regno Unito questioni di difesa e affari esteri. Da parte loro, i britannici hanno ragioni di tradizione e strategia geopolitica che li dissuadono dal togliere il piede messo su uno dei più importanti choke points, gli stretti e passaggi obbligati che vincolano il traffico navale, agevolandone il controllo.

La Gibraltar Football Union venne fondata nel 1895 e venne affiliata alla Football Association, il corpo che governa il calcio inglese. Con un solo campo a disposizione – il Victoria Park, a ridosso dell’aeroporto di Gibilterra e a pochi passi dal confine spagnolo – la Gibraltar FA organizza un campionato maschile strutturato su tre divisioni, una lega femminile e un torneo a eliminazione diretta, la Coppa della Rocca. Tutto questo senza contare la folta attività giovanile e la squadra nazionale, che il 25 ottobre 1949 toccò il cielo con un dito fermando sul 2-2 il Real Madrid allenato da Michael Keeping e con in campo leggende come il due volte Pichichi Pahiño, Luis Molowny e Miguel Muñoz (primo marcatore del Real alla Coppa dei Campioni e capitano nei trionfi del 1956 e del 1957). Le due reti dell’incontro furono entrambe segnate da un altrimenti sconosciuto attaccante di nome Belso. La vittoria del 1949 fu una delle ultime partite che la selezione poté disputare contro una squadra spagnola: a metà anni ’50 il governo impose alle squadre di chiedere un permesso governativo per disputare partite a Gibilterra e istruì le guardie di frontiera perché in assenza di tale permesso bloccassero i giocatori al confine. Nessun permesso fu mai concesso.

La richiesta di diventare membro FIFA venne formalizzata l’8 gennaio 1997. Nel 1999 la FIFA espresse un parere positivo, dichiarando la conformità della GFA ai requisiti statutari e rinviando all’UEFA l’applicazione di Gibilterra. L’anno seguente la confederazione europea e la FIFA condussero un’ispezione congiunta sugli impianti dedicati al calcio di Gibilterra e proposero l’ammissione della GFA all’UEFA ponendo come uniche condizioni l’impossibilità di accedere immediatamente a competizioni internazionali a livello seniores e under-21, la conformità delle infrastrutture ai requisiti delle competizioni UEFA di interesse e l’adattamento dello statuto della GFA agli standard UEFA. A far inciampare un processo che sembrava fino a quel punto lineare fu il pendente rinnovo dello statuto FIFA nel 2004, che spinse l’ente sovranazionale a congelare tutte le domande di ammissione fino all’approvazione del nuovo documento. Le nuove regole di ammissibilità rispecchiavano la volontà della FIFA di ammettere solo federazioni facenti capo a Stati riconosciuti all’interno dell’ONU (nonostante in passato siano state fatte delle deroghe a tale requisito, come nel caso delle isole Fær Øer o le stesse Home Unions alle quali, però, lo statuto stesso concede di poter partecipare separatamente), e nel 2007 Gibilterra incassò un nuovo rifiuto.

A pesare fu anche l’opposizione della Spagna che più volte ha minacciato di ritirare le proprie squadre dalle competizioni UEFA in caso di ammissione della colonia, costringendo la GFA a rivolgersi al Tribunale Arbitrale dello Sport nel 2007 e perfino a prendere in considerazione l’idea di chiedere l’ammissione alla confederazione africana invece che a quella europea. Pur di giocare e dare respiro al proprio calcio Gibilterra cominciò a partecipare a competizioni con altre nazionali non riconosciute, dai canonici Island Games (vinti nel 2007) fino alla Wild Cup, la Coppa del Mondo per paesi non-FIFA organizzata dalla FIFI (Federation of International Football Independents), in cui Gibilterra fu eliminata in semifinale da Cipro Nord, che si aggiudicò poi ai rigori la finale contro Zanzibar.

Tra i piani della GFA, dopo la conferma dell’ammissione, c’è la costruzione di un nuovo stadio a Europa Point: il Victoria Stadium sorge infatti in un territorio oggetto di ulteriori dispute tra la Spagna e il Regno Unito. Lo stadio è costruito a ridosso dell’aeroporto nella Verja de Gibraltar, l’istmo che separa il territorio della Rocca dalla Spagna, che per il governo britannico appartiene alla sovranità di Gibilterra essendone stato possedimento per un periodo prolungato.

Damiano Benzoni
(Dinamo Babel, pagina facebook e twitter)

Inglesi, spagnoli e… genovesi

Pur essendo famosa per le rivendicazioni britanniche e spagnole, Gibilterra ha un forte legame con l’Italia: l’attuale Primo Ministro Peter Caruana ha origini italiane, così come molti dei suoi predecessori. All’inizio del Settecento, quando la Spagna cedeva la Rocca ai britannici, la maggioranza della popolazione locale era genovese e fino alla metà dell’Ottocento l’italiano fu de facto lingua ufficiale insieme a castigliano e inglese. La neutralità politica e l’operosità dei pescatori di Pegli e dei loro figli era talmente apprezzata da spingere il governatore britannico a istituire la Guardia Genovese, un corpo armato responsabile del controllo e della difesa del territorio. Con l’inevitabile aumento dei coloni inglesi e dei matrimoni misti la popolazione di origine genovese è diminuita notevolmente e non rappresenta più la maggioranza degli abitanti, tuttavia ancora oggi i discendenti di quei primi pescatori continuano a sottolineare le loro origini dando ai figli nomi e soprannomi liguri. Quanto alla lingua, benché il genovese sia sparito da Gibilterra – fatta eccezione per il villaggio de La Caleta, dove si insediarono i primi pescatori, che ancora negli anni ’70 ospitava alcuni anziani di lingua genovese – ha influenzato il dialetto locale, il Llanito, che secondo alcuni studiosi prenderebbe addirittura il nome dal diminutivo di Gianni “Iannito”.

La Rocca dello sport

Nonostante la superficie ridotta, Gibilterra è una vera e propria roccaforte dello sport. L’attività sportiva è tenuta in grande considerazione e si concentra principalmente nel Victoria Stadium e nel Tercentenary Sports Centre, strutture attrezzate per ospitare atleti di diverse discipline. Gibilterra come vedremo ha una profonda tradizione calcistica, sebbene frustrata dall’ostracismo spagnolo, ma non solo: già nel 1800 sorgeva a nord del promontorio della Rocca un campo da cricket. Nel 1890 ospitò la prima nazionale in tournée, in circostanze decisamente particolari: la nave Liguria stava trasportando la selezione australiana in Inghilterra e si scontrò con altre due navi mentre attraversava il porto di Gibilterra; durante le riparazioni gli australiani giocarono una partita contro il Gibraltar Garrison. Purtroppo lo sviluppo dello sport ha sempre risentito della posizione strategica di Gibilterra, chiamata periodicamente alla mobilitazione militare, e delle dispute tra Spagna e Regno Unito che hanno portato i confini a essere continuamente aperti e chiusi a seconda del grado di tensione tra i due litiganti. Non fu quindi possibile dar seguito all’esplosione del cricket negli anni ’30, ma buoni risultati sono comunque arrivati nel tempo. Gibilterra è stata una presenza pressoché fissa nell’ICC Trophy, una competizione che raccoglieva le migliori realtà del cricket “minore” e funge da ultimo stage delle qualificazioni al Mondiale. Proprio in questa manifestazione nel 1986 ottenne la prima storica vittoria internazionale e altre tre seguirono nell’edizione successiva.

Una delle maggiori soddisfazioni sportive di Gibilterra è arrivata però dall’hockey su prato dove nel 1978 la nazionale staccò il biglietto per gli Europei di Hannover. Inserita nel girone di ferro con Germania Ovest, Inghilterra, Polonia, Francia e Scozia si classificò ultima, strappando però uno storico pareggio ai polacchi; negli spareggi per definire le posizioni nella classifica finale perse di misura contro Unione Sovietica e Scozia.

Gibraltar Football Club, 1895.

Gibraltar Football Club, 1895.

Come scritto da Benzoni, il primo ottobre del 2012 la Gibilterra calcistica è stata ammessa come membro provvisorio della UEFA e ha potuto così partecipare ad alcune competizioni ufficiali. Dal 23 al 26 gennaio 2013 ha giocato tre partite valide per le qualificazioni ai campionati europei di calcio a 5 del 2014: inserita nel Gruppo A del turno preliminare ha perso contro Montenegro (10-2) e Francia (6-2) per poi battere San Marino 7-5; ha chiuso il girone penultima ed eliminata. Nell’autunno del 2013 prenderà parte alle qualificazioni agli Europei U-17 del 2014 dove affronterà Irlanda, Inghilterra e Armenia. Dal 17 al 22 l’under-19 volerà in Repubblica Ceca per giocarsi la qualificazione agli Europei di categoria contro i padroni di casa, la Croazia e Cipro.

L’esordio mancato della nazionale spagnola

Il debutto ufficiale della nazionale spagnola di calcio avvenne il 28 agosto del 1920 durante i Giochi Olimpici in Belgio, ma il ricercatore Fernando Arrechea del Centro de Investigaciones de Historia y Estadística del Fútbol Español (CIHEFE) ha recentemente portato alla luce una storia davvero incredibile, specialmente se vista con gli occhi di oggi. Il catalano Carlos Padrós fu un politico e dirigente sportivo che fin dai primi anni del Novecento cercò di mettere le mani sul mondo sportivo spagnolo e nel calcio in particolare profuse grandi sforzi per dare vita alla prima selezione nazionale. Nel 1905 viene fondato il Comité Español de los Juegos Olímpicos (oggi Comité Olímpico Español) su impulso del Comitato Olimpico Greco per permettere alla Spagna di partecipare agli imminenti Giochi Olimpici Intermedi di Atene: il presidente del Madrid FC (oggi Real Madrid) Padrós è responsabile per il calcio. Alla fine la Spagna non parteciperà ai Giochi e l’organizzazione di una nazionale calcistica, uno degli obiettivi prioritari dell’intera spedizione, sarà dunque rimandata.

Estratto della lettera di Padrós pubblicata da El Mundo Deportivo. (CIHEFE)

Estratto della lettera di Padrós pubblicata da El Mundo Deportivo. (CIHEFE)

Padrós, però, torna immediatamente alla carica e il 21 gennaio del 1907 manda una lettera a Narciso Masferrer di El Mundo Deportivo, pubblicata il giorno 31, nella quale spiega i suoi piani per i Giochi Olimpici del 1908 a Londra: sottolineando la necessità di un “hombre de suficiente energía y fuerza de voluntad” che possa riunire lo scenario sportivo spagnolo (e candidandosi dunque a tale ruolo) palesa l’intenzione di creare una nazionale di calcio spagnola. A tale scopo ha “invitato, pagandole il viaggio, la squadra della federazione di Gibilterra, che dicono essere fortissima. Se tutto va come desidero, la vedremo a Madrid”. È bene ricordare che la Gibraltar Civilian Football Association venne fondata nel 1895, quasi vent’anni prima della Real Federación Española de Fútbol, per regolamentare e dare un’organizzazione al sempre crescente numero di squadre; già nel 1901 esisteva una nazionale di Gibilterra che si confrontava con le squadre dei militari britannici e all’epoca dell’iniziativa di Padrós era sicuramente una squadra temibile, forte dell’esperienza maturata contro i soldati di Re Edoardo VII. Purtroppo le cose non andranno come desiderava Padrós e la partita non sarà mai giocata. La nazionale spagnola esordirà quindi nel 1920, ma avrebbe potuto esordire nel 1907 proprio contro Gibilterra.

Tre Llanitos da ricordare

  • Negli anni ’60 la nazionale inglese poteva contare su portieri del calibro di Banks, Bonetti, Springett e Hodgkinson, ma quello che secondo molti era il più forte di tutti non potè mai vestire la celeberrima maglia gialla della selezione nazionale. Tony Macedo viveva in Inghilterra fin da piccolo, aveva completato il servizio militare nella RAF durante i primi anni col Fulham e difendeva i pali della nazionale under-23, ma era nato a Gibilterra da padre spagnolo e solo nel 1981 ai nativi della Rocca sarà garantita la piena cittadinanza britannica. Dovrà quindi accontentarsi di successi ed elogi con il Fulham più forte di sempre prima di emigrare in Sudafrica, costretto dagli infortuni, a terminare la carriera.

 

  • Al terzo turno della FA Cup del 1991 il West Bromwich Albion, squadra della Second Division inglese, pescò i semi-professionisti del Woking. A fine primo tempo i “Baggies” controllano facilmente un comodo vantaggio di misura e la partita sembra segnata, ma non hanno fatto i conti con l’informatico Tim Buzaglo: il 29enne attaccante di Gibilterra segna una tripletta nel secondo tempo, porta il risultato sul 4-2 finale e il Woking passa incredibilmente il turno. La sconfitta sarà fatale al West Bromwich Albion che licenzierà l’allenatore Brian Talbot e retrocederà a fine stagione, mentre il Woking dovrà confrontarsi con l’Everton (First Division) al quarto turno e perderà per 1-0 dando battaglia. Buzaglo entra nella storia della FA Cup e nel 2006, in occasione del 125esimo anniversario della FA Cup, viene inserito nel Team of Heroes della competizione dalla stessa Football Association. Non male per un atleta che aveva raggiunto i migliori risultati sportivi giocando a cricket con la nazionale di Gibilterra: nel 1986 venne convocato per l’ICC Trophy, ma non era in campo a fianco del padre e del fratello nella prima storica vittoria internazionale contro Israele; segnò invece sedici runs nella vittoria ai primi Europei del 1996 contro l’Italia.
  • Jeremy Campbell-Lamerton è stato un seconda linea di valore: nazionale scozzese di rugby a 15 e convocato per i primi Mondiali del 1987, Jeremy è figlio di un’altra seconda linea, il colonnello Michael Campbell-Lamerton, capitano della nazionale scozzese e due volte selezionato dai British and Irish Lions, militare nato a Malta (dove stazionava il padre Robert) di servizio in Corea, Cipro e Gibilterra. Proprio nella Rocca nascerà Jeremy, destinato a raccogliere l’eredità rugbistica paterna.

L’Editore

La resistenza calpestata di Kiev

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Questo resoconto, frutto di minuziosa ricerca e raccolta di documenti, è uno dei primi lavori in italiano a portare alla luce la vera storia di questa partita. È stato scritto da Damiano Benzoni (@DamjanBNZ) e pubblicato su SportVintage prima e Dinamo Babel (@DinamoBabel) poi. È qui riportata fedelmente la versione pubblicata su Dinamo Babel senza modifica alcuna.

Qui potete trovare l’intervento dell’autore alla trasmissione A Bordo Campo (Radio24) sulla vicenda oggetto dell’articolo.

ImmagineLa cicatrice sulla guancia sinistra non lasciava dubbi: quell’uomo nel caffè in Mykhailivs’ka Vulycja era Mykola Trusevič, il portiere della Dinamo. Era irriconoscibile, persino per un tifoso sfegatato come Iosif Kordik. Magro ed emaciato, zoppicante, vestito di stracci, sporco e non rasato, l’unico indizio che rendeva riconoscibile il portiere era proprio quella cicatrice, procurata in uno scontro di allenamento contro il cognato e compagno di squadra Josyf Livshitz. Nel vedere in quello stato il grande Trusevič, l’ispiratore della storica vittoria 6-1 della Dinamo Kiev sul Red Star Olympic di Parigi, Kordik decise di invitarlo al suo tavolo e offrirgli un pranzo. Uscito dal campo di prigionia della Darnica e diviso da moglie e figlia, rifugiatesi ad Odessa, Trusevič viveva di stenti sotto la sempre presente minaccia di essere arrestato, deportato come schiavo in Germania o giustiziato.

L’Ucraina era stata occupata dai nazisti il 22 giugno 1941, all’inizio dell’Operazione Barbarossa, il giorno in cui la Dinamo Kiev doveva inaugurare il nuovo Stadio della Repubblica Stalins’kyj Respublikans’kyj Stadion, l’odierno Stadio Olimpico della capitale ucraina. Kiev fu bombardata fin dal primo giorno dell’invasione e nel mese di settembre fu raggiunta dalle truppe della Wehrmacht: l’Armata Rossa, con poca esperienza (i migliori ufficiali erano stati purgati da Stalin) e scarso equipaggiamento, era stata falciata attacco dopo attacco dai tedeschi, senza riuscire a opporre resistenza. Ben più efficace fu la resistenza partigiana per le strade di Kiev, cui parteciparono distinguendosi alcuni dei giocatori della Dinamo. I calciatori erano stati trattenuti nella capitale, mentre le loro famiglie si rifugiavano a Odessa, nelle retrovie: alla richiesta di unirsi ai propri cari nella fuga il presidente dell’NKVD locale, Lev Varnavskyj, aveva accusato i giocatori di codardia. Varnavskyj morì suicida il giorno stesso in cui le truppe di Hitler fecero il proprio ingresso a Kiev. Tra i giocatori che si distinsero nei combattimenti in difesa della città vi furono le mezzali Mykola Mahynja, fervente stalinista, e Konstantin Ščegods’kij, oltre a Trusevič. Kiev si arrese il 19 settembre 1941. I tedeschi fecero oltre seicentomila prigionieri di guerra, tra cui Mahynja e un malmesso Trusevič. Ščegods’kij, che era riuscito a lasciare la capitale per continuare a combattere nelle retrovie, si era separato dal portiere il giorno prima, dopo averlo incontrato fortuitamente allo stadio: anch’egli l’aveva riconosciuto unicamente grazie alla cicatrice sulla guancia. Mentre i nazisti fucilavano quasi 34 mila ebrei in due soli giorni presso le rovine di Babyn Jar, Trusevič e gli altri giocatori presi come prigionieri di guerra lottavano per la sopravvivenza nel campo di detenzione della Darnica. Per poter tornare a Kiev, furono costretti a firmare una dichiarazione di lealtà al regime nazista. Nel 1942 Kiev contava quattrocentomila abitanti. Tre anni dopo ne sarebbero rimasti vivi solamente ottantamila.

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Iosif Ivanovič Kordik era un ceco della Moravia, nato nell’Impero Austro-Ungarico, e aveva combattuto la Prima Guerra Mondiale per gli Asburgo. Ferito in combattimento, era stato costretto dagli eventi a rifugiarsi a Kiev, dove rimase per il resto della sua vita. Sfruttando la sua conoscenza perfetta del tedesco, modificò il proprio patronimico da Ivanovič a Jorganovič, mentì riguardo il proprio luogo di nascita e, dichiaratosi austriaco, ottenne di farsi riconoscere come Volksdeutsche, una delle quattro classi in cui i tedeschi stratificarono la società dell’Ucraina dopo l’occupazione. Il vertice della piramide era rappresentato dai Reichsdeutsche, i tedeschi del Reich, soldati e amministratori con poteri pressochè infiniti, che conducevano uno stile di vita di gran lunga superiore a quello del resto degli abitanti della città. I Volksdeutsche erano cittadini di provenienza tedesca che già si trovavano a Kiev, a cui fu concesso il privilegio di poter gestire attività: Kordik si trovò a dirigere l’importante panificio cittadino per cui lavorava. I cittadini ucraini, nonostante avessero generalmente rigettato il bolscevismo che aveva oppresso l’Ucraina sotto il pugno di ferro di Stalin, erano considerati schiavi da far lavorare fino allo stremo in condizioni inumane. Ancora peggiore era la situazione di coloro che erano considerati nemici del Reich: membri del Partito Comunista, ufficiali di polizia o individui che avessero prestato servizio nei combattimenti a difesa della città. Tra i nemici del Reich, tenuti sotto costante sorveglianza, vi erano i giocatori della Dinamo, la squadra che, nella rigida struttura sportiva sovietica, faceva capo all’NKVD, la polizia segreta. Anche se si trattava solo di un modo di poter essere tesserato e poter giocare per una squadra prestigiosa (la Dinamo Kiev dall’inizio del Campionato Sovietico nel 1936 aveva ottenuto un secondo e un terzo posto), ogni giocatore era un dipendente del Ministero degli Interni.

Kordik era un appassionato di sport: avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare il suo campione, Trusevič, e per averlo al suo fianco. Approfittando dei privilegi dovuti al suo stato di Volksdeutsche, si offrì di assumere Trusevič nel suo panificio. Il portiere aveva lavorato per vent’anni come ingegnere panificatore, ma dovette accettare un posto come inserviente, con la mansione di spazzare il cortile della fabbrica: le leggi naziste gli impedivano, essendo un nemico del Reich, di tornare a esercitare la sua vecchia professione. Kordik non era spinto unicamente dall’altruismo: appassionato di sport, voleva circondarsi di figure che avessero avuto un certo prestigio sportivo e fornire ai propri dipendenti, attraverso lo sport, una valvola di sfogo perchè producessero di più e lavorassero meglio. Fu così che Kordik chiese a Trusevič di andare in cerca dei suoi vecchi compagni, per formare una squadra di calcio del panificio: i giocatori assunti avrebbero così ottenuto un posto per dormire, qualcosa da mangiare e una piccola protezione dalle angherie del Reich. Il portiere, personaggio carismatico dello sport ucraino, riuscì ad allestire la squadra nella primavera del 1942, partendo dall’ala Makar Hončarenko. All’arrivo dei nazisti, Hončarenko si era adoperato per conservare la propria divisa e i propri scarpini: nazismo o comunismo, la sola cosa che gli importava era la possibilità di giocare a calcio. Hončarenko accettò entusiasticamente la proposta di Trusevič: si mise in contatto con il difensore Mychajlo Svyrydovs’kyj e col centravanti Ivan Kuz’menko e iniziò ad aiutare il suo vecchio compagno di squadra nel reclutamento. Ai vecchi giocatori della Dinamo si unirono anche Vasyl’ Sucharjev, Volodymyr Balakin e Mychajlo Mel’nyk, del Lokomotyv Kiev, la seconda squadra della capitale ucraina.

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Nel frattempo Kiev cercava di resistere come possibile all’occupazione tedesca: organizzazioni clandestine cercavano di mantenere alta la speranza degli abitanti della città e, in alcuni casi, ne organizzavano la fuga verso i territori ancora sotto il controllo dei sovietici. I tedeschi non erano riusciti a piegare lo spirito degli ucraini e, per sottomettere Kiev, dovettero affidarsi alla propaganda. E al calcio: quale migliore mezzo di propaganda poteva plasmare il cuore e le menti degli ucraini e renderli più arrendevoli al regime nazista? Fu così che i tedeschi organizzarono allo Stadio della Repubblica una partita tra la squadra di un’unità dell’esercito tedesco e una squadra ucraina chiamata Ruch. La Ruch era stata fondata da Heorhyj Ščvecov, ex calciatore del Lokomotyv divenuto fervente collaborazionista del regime nazista. La sua speranza, simile a quella di Kordik, era di attrarre nella sua squadra la crema del calcio ucraino, ma il livello dei giocatori della Ruch era molto inferiore a quello che Ščvecov si illudeva di attirare. L’aperto collaborazionismo della squadra nei confronti dei nazisti non aiutava certo a rendere l’iniziativa più popolare. In compenso l’ex-Lokomotyv, divenuto allenatore-giocatore della Ruch e giornalista sportivo per il giornale collaborazionista Nove Ukraïns’ke Slovo, riuscì a convincere le autorità tedesche a riorganizzare il campionato ucraino di calcio. La nuova stagione calcistica di Kiev avrebbe avuto il suo calcio d’inizio il 7 giugno 1942.

Start-monumento

Data la classe della squadra che Kordik era riuscito ad allestire, era inevitabile che il team del panificio venisse iscritto al nuovo campionato. La squadra venne battezzata FC Start. Fu nominato capitano Mykola Trusevič, il carismatico portiere, noto per la sua agilità e per il suo stile di parata spettacolare. Trusevič era visto dai compagni non solo come un esempio di impegno e dedizione, ma anche come un motivatore, un’ispirazione. Ad affiancarlo nelle decisioni era Mychajlo Putystin, veterano della squadra che vinse l’argento nel campionato sovietico del 1936. Mychajlo Svyrydovs’kyj, colonna della Dinamo di dieci anni prima, divenne l’allenatore de facto della Start: ormai ritiratosi, tornò a indossare gli scarpini, posizionandosi in difesa insieme a Fedir Tjutčev (anche lui tornato dal ritiro) e dal veloce Oleksyj Klimenko, terzino minuto, ma arcigno. Se a centrocampo si attestò Mykola Korotkich, personaggio calcistico di second’ordine, l’attacco della Start era invece una parata di stelle: ad affiancare Mykola Mahynja c’erano Pavel Komarov, capocannoniere della Dinamo fino al 1939, e Ivan Kuz’menko. Komarov e Kuz’menko erano due giocatori complementari: se Komarov affiancava ad un innato istinto per il gol una scarsa propensione alla fisicità, Kuz’menko vantava una buona presenza fisica e un tiro potente e preciso. Hončarenko, infine, era l’artista della squadra: basso e compatto, ma allo stesso tempo veloce e talentuoso, possedeva visione di gioco e classe, oltre all’abilità di servire i compagni in maniera precisa e di sfruttare ogni spiraglio di porta che offrisse la possibilità di segnare.

Ai giocatori della Start, in particolare allo stalinista Mahynja, non sfuggì la natura propagandistica del campionato: partecipare la competizione poteva essere letto come un segnale di collaborazionismo con i nazisti. Molti giocatori erano però convinti che giocare potesse contribuire a tenere alto il morale dei cittadini della Kiev occupata. La storia, narrata da Hončarenko, vuole che Putystin e Trusevič avessero trovato in un magazzino una divisa con cui disputare il campionato. Rossa. “Non abbiamo armi – disse Trusevič – ma possiamo combattere per la vittoria in campo. Indosseremo questo colore, il colore della nostra bandiera: i fascisti devono imparare che questo colore non si piegherà”. Trusevič trovò per se stesso una maglia nera con finiture rosse, da utilizzare come divisa da portiere. Nonostante i massacranti turni di lavoro del panificio, la scarsa alimentazione e la precaria condizione fisica, il 7 giugno la Start iniziò il proprio campionato giocando allo Stadio della Repubblica contro la Ruch, battendola 7-2 e mandando su tutte le furie Ščvecov. La rappresaglia del collaborazionista fu immediata: Ščvecov ottenne dal maggiore-generale Eberhardt di impedire ai giocatori della Start l’accesso allo Stadio della Repubblica. Kordik giunse in soccorso della sua squadra, riuscendo a strappare alle autorità il permesso di utilizzare un impianto più piccolo, lo stadio Zenit. Lo Zenit fu inaugurato con una vittoria 6-2 sulla squadra del battaglione ungherese, seguita pochi giorni dopo da un perentorio 11-0 ai danni del battaglione rumeno. Proprio i soldati ungheresi e rumeni, alleati loro malgrado dei tedeschi e costretti al fronte, divennero i più grandi sostenitori della Start. Culturalmente affini agli ucraini, non vedevano con simpatia i nazisti: arrivarono a regalare di nascosto cibo ai giocatori della Start e a supportarli col proprio tifo alle partite successive. Le vittorie della Start iniziarono a significare molto per la popolazione di Kiev: per molti furono un’ispirazione a resistere, uno sprone a tenere alto il morale, un appiglio per non lasciarsi schiacciare dai nazisti.

Il 17 luglio la squadra incontrò per la prima volta una squadra tedesca, la PGS, affondandola sotto il peso di sei reti 6-0, mentre un’altra squadra ungherese, l’MGS Wal, perse 5-1 due giorni più tardi. La rivincita dell’incontro con l’MGS Wal, organizzata dai nazisti per piegare fisicamente i giocatori e costringerli alla sconfitta, ebbe solo il risultato di alimentare l’alone di leggenda della Start, che resistette epicamente alla rimonta ungherese, strappando una vittoria 3-2 al fischio finale. La Start stava diventando un simbolo della resistenza di Kiev, e le autorità tedesche non potevano più far finta di niente. Arrestare e giustiziare i giocatori avrebbe avuto l’effetto indesiderato di creare dei martiri. I comandi militari decisero di mandare a giocare a Kiev il Flakelf, la più forte squadra militare tedesca di stanza in Ucraina, considerata invincibile. Il risultato del 6 agosto fu un’altra volta una larga vittoria della Start: il Flakelf fu sconfitto 5-1, proprio nei giorni in cui Stalin proclamava che l’Unione Sovietica non avrebbe fatto un solo passo indietro. L’ultima occasione per piegare la Kiev calcistica sarebbe stata il 9 agosto: rinforzando la squadra con alcuni tra i migliori calciatori dell’esercito tedesco impiegati sul fronte ucraino, i nazisti organizzarono la rivincita.

Start-1942

Qui comincia la leggenda della Start, tramandata dal racconto fatto da Hončarenko a una radio nel 1992. Poco di quanto avvenne è sicuro e documentabile, e molti sono i dubbi, oltre che le diverse versioni dei fatti, discordanti perfino sui risultati delle due partite tra Start e Flakelf: la versione più credibile e meglio documentata è quella riportata da Andy Dougan nel suo Dynamo: Defending the Honour of Kiev. I giocatori vennero considerati da parte dell’opinione sovietica dei disertori che, invece di combattere al fronte in difesa di Stalingrado e Mosca, si erano imboscati ed erano stati conniventi con l’invasore, al punto di intrattenersi in partite di calcio con lui. D’altronde, l’orgogliosamente nazionalista Ucraina aveva sempre mostrato insofferenza per i russi e per il giogo sovietico. I giocatori che sopravvissero alla guerra non furono perseguitati dal regime stalinista, che forse preferì evitare di toccare dei popolari eroi sportivi e decise piuttosto di sfruttare la vicenda a fini di propaganda, colorando, esagerando e distorcendo a proprio piacimento la storia di Trusevič e compagni. I giocatori sono ricordati da tre monumenti a Kiev, uno dei quali si trova allo Stadio Lobanovs’kyj, casa della Dinamo. Scolpito da Ivan Horovyj nel 1971, il monumento porta sul suo piedistallo una poesia di Stefan Olyjnyk:

Per il nostro presente
sono morti nella lotta
la vostra gloria non si spegnerà,
eroi, atleti senza paura.

Il 9 agosto un arbitro tedesco fece il suo ingresso nello spogliatoio della Start, prima della partita, intimando ai giocatori di scendere in campo e salutare alla maniera dei tedeschi. Dopo il sieg-heil dei tedeschi, però, i giocatori della Start abbassarono la testa per un attimo e, invece di urlare “Heil Hitler!“, fecero il saluto che era di costume nello sport sovietico: “Fitzcult Hurà!“, un motto che inneggia allo sport come miglioramento di se stessi, dal punto di vista fisico e interiore. Fu il Flakelf a portarsi in vantaggio per primo, approfittando dello stordimento del portiere Trusevič, colpito da un calcio in testa. Il pareggio venne dal potente piede di Kuz’menko, che eluse la ben organizzata difesa tedesca con un tiro da trenta metri di distanza. Due reti di Hončarenko, un dribbling inebriante e una mezza rovesciata, chiusero il primo tempo sul punteggio di 3-1. Durante l’intervallo la squadra ricevette due visite. Il primo visitatore fu Ščvecov, fino al giorno prima acerrimo nemico della Start, che chiese ai giocatori di pensare alla propria incolumità e di non far adirare le autorità tedesche. Dopo Ščvecov fece il suo ingresso un ufficiale delle SS. “Siamo veramente impressionati dalla vostra abilità calcistica e abbiamo ammirato il vostro gioco del primo tempo – disse l’ufficiale, in un russo impeccabile – Ora però dovete capire che non potete sperare di vincere. Prima di tornare in campo, prendetevi un minuto per pensare alle conseguenze”. Nel secondo tempo il clima della partita era cambiato: entrambe le squadre giocarono in maniera trattenuta. Due reti per parte fissarono il risultato sul 5-3. Il difensore Oleksyj Klimenko umiliò i tedeschi poco prima del fischio finale, dribblando la difesa del Flakelf e il loro portiere, fermando il pallone a un passo dalla porta e ricalciandolo in campo invece di segnare un 6-3 ormai scontato.

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L’invincibile Start giocò solo un’altra partita, umiliando nuovamente la Ruch di Ščvecov 8-0. Alcune settimane più tardi iniziarono gli arresti. Il primo ad essere portato via fu il mediano Mykola Korotkich. Riserva della Dinamo negli anni ’30, si era ritagliato un posto da titolare nel centrocampo della Start. A differenza dei suoi compagni di squadra, che erano membri dell’NKVD solo nominalmente, Korotkich era un ufficiale in servizio della polizia segreta. Fu arrestato il 6 settembre, e morì dopo venti giorni di tortura nel quartier generale della Gestapo in Korolenka Vulycja. Anche gli altri giocatori subirono le torture della Gestapo, prima di essere deportati nel campo di concentramento di Syrec, poco fuori Kiev, amministrato dal feroce Paul von Radomsky, Obersturmbahnführer delle SS. Hončarenko e Svyrydovs’kyj riuscirono a fuggire insieme: il primo fu l’unico dei giocatori a raccontare la propria versione della storia della Partita della Morte, come fu battezzata più tardi. Fuggì dal campo anche Komarov, accusato da Hončarenko di essersi venduto alle SS pur di avere un occasione di scappare.

Tre giocatori persero la loro vita a Syrec: Kuz’menko, Klimenko e Trusevič, tutti e tre nella stessa occasione. La loro morte viene raccontata da un sedicente testimone oculare, ma il racconto stesso conserva i tratti della leggenda e ci presenta tre morti quasi stereotipiche, che enfatizzano i tratti salienti del carattere dei tre giocatori. La mattina del 24 febbraio 1943 Radomsky ordinò di uccidere una rappresaglia per un tentato attacco incendiario al campo. I prigionieri vennero disposti in fila: una persona ogni tre veniva colpita alla testa col calcio del fucile e freddata con una pallottola alla nuca. Ivan Kuz’menko, il gigante dell’attacco della Dinamo e della Start, fu colpito in mezzo alle scapole dal calcio del fucile, vacillò e, benchè stremato dalla fame e dalla fatica, rimase in piedi. Resistette a diversi colpi, prima di accasciarsi al suolo e ricevere il proprio proiettile. Oleksyj Klimenko, il minuto difensore che aveva umiliato il Flakelf sul finire della partita, crollò immediatamente a terra e fu finito da una pallottola dietro l’orecchio. Mykola Trusevič, il carismatico portiere, sentì i passi delle SS fermarsi alle sue spalle. Si preparò a ricevere il colpo, ma finì ugualmente per terra. Si rialzò, con tutta l’agilità che l’aveva reso il miglior portiere dell’Unione Sovietica e, mentre la guardia apriva il fuoco, urlò: “Krasny sport ne umriot!“, lo sport rosso non morirà mai. Morì nella sua divisa da gioco nera e rossa, l’unico indumento caldo che possedeva.

Damiano Benzoni

Con Martin: Mister Versatilità

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Gli inizi tra due football

Cornelius Joseph Martin nacque il 20 marzo del 1923 a Rush, una piccola cittadina affacciata sul Mare d’Irlanda. Come tanti giovani irlandesi Martin cominciò a praticare gli sport della sua terra, in particolare il Gaelic football nel St Maurs di Rush e nel St Marys di Saggart arrivando a rappresentare la Contea di Dublino ad appena diciotto anni, nel 1941, e vincendo subito il torneo della provincia di Leinster. La sua carriera nel calcio gaelico terminò presto: si scoprì che tradiva il Gaelic praticando anche il soccer, “sport straniero” bandito dalla Gaelic Athletic Association e oltre a ricevere una squalifica a vita dovette restituire le medaglie conquistate sul campo. La squalifica venne poi annullata nel 1971, ben trent’anni dopo, e le medaglie restituite. Il calcio straniero l’aveva imparato mentre prestava servizio nella Aer Chór na hÉireann, l’aeronautica irlandese.

Venne ingaggiato dal Drumcondra, militante nella prima divisione del campionato irlandese, e immediatamente emerse la sua versatilità, caratteristica che gli fece guadagnare il soprannome di “Mr. Versatility”. Nel 1946 vinse la FAI Cup coprendo tutti i ruoli della difesa e passò al Glentoran. Fu in questo periodo che esordì nelle due nazionali irlandesi: portiere del FAI XI (Éire) e difensore dell’IFA XI (Irlanda del Nord).

ConMartin

Al Glentoran non rimase molto: nel 1946 il Manchester United cercava un portiere e il compagno di nazionale Johnny Carey raccomandò Martin a Matt Busby. Martin rifiutò l’offerta e nel dicembre del 1946 firmò per il Leeds, preferendo una posizione di movimento. Con i Whites giocò terzino sinistro, difensore centrale, mediano sinistro e mezzala. Nel settembre del 1948 cambiò ancora casacca, passando all’Aston Villa dove cominciò come difensore centrale con qualche concessione al ruolo di terzino destro. La stagione successiva venne spostato a terzino sinistro, ma a seguito dell’infortunio al portiere Joe Rutherford lo sostituì giocando in porta 26 partite di campionato e una di FA Cup; per tornare in seguito a coprire il suo ruolo di centrale difensivo.

Conclusa l’esperienza ai Villans durata otto stagioni tornò in patria, prima al Waterford e poi al Dundalk come giocatore-allenatore.

Le due nazionali irlandesi

L’esperienza internazionale di Martin cominciò nel 1946 quando in Irlanda c’erano due federazioni rivali, la IFA (Irlanda del Nord) e la FAI (Éire). Entrambe sostenevano di avere giurisdizione su tutta l’isola e operavano in tal senso, convocando calciatori indipendentemente dalla parte dell’isola nella quale erano nati.

Tra il 1946 e il 1956 Martin giocò trenta partite per il FAI XI segnando sei reti. Debuttò il 16 giugno del 1946 durante un tour nella penisola iberica: al trentesimo minuto del match contro il Portogallo, il portiere irlandese Ned Courtney si infortunò e Martin lo sostituì. A seguito della buona prova mantenne il posto tra i pali nella partita successiva contro la Spagna dove riuscì a rispondere a tutti gli attacchi della temibile linea offensiva spagnola e difese il vantaggio di 1-0. Seguiranno tante altre partite, in particolare tutte e quattro le gare del girone di qualificazione ai Mondiali del 1950 contro Svezia e Finlandia e la prima vittoria di una nazionale esterna al Regno Unito contro l’Inghilterra il 21 settembre 1949 al Goodison Park di Liverpool (2-0, marcature inaugurate da Martin su rigore).

Martin giocò anche sei partite per l’undici della IFA tra il 1946 e il 1950. L’ultima presenza arrivò l’8 marzo del 1950 in una partita contro il Galles valida per il Torneo Interbritannico del 1950 e per le qualificazioni al Mondiale dello stesso anno. Martin, Tom Aherne, Davy Walsh e Reg Ryan divennero gli unici quattro calciatori ad aver giocato le qualificazioni a una Coppa del Mondo per due nazionali diverse nella stessa edizione.

L'Irlanda che sconfisse l'Inghilterra nel 1949: Con Martin è il primo in piedi.

L’Irlanda che sconfisse l’Inghilterra nel 1949: Con Martin è il primo in piedi.

Eredità e versatilità

Il figlio Mick Martin, nazionale irlandese, ha giocato nella prima metà degli anni ’70 per il Manchester United, mentre la carriera dell’altro figlio Con Jr. è stata frenata dagli infortuni; la figlia Mary ha sposato Gerry Garvan, ex Drumcondra, e il loro figlio Owen Garvan gioca nel Crystal Palace ed è stato già convocato in nazionale da Trapattoni.

Capitano di entrambe le nazionali irlandesi, capace di giocare con eguale abilità tra i pali o nella linea d’attacco, calciatore e allenatore, giocatore di calcio, calcio gaelico, golf (capitano del Rush Golf Club e della Fingal Golf Society) e cricket (per il Rush Cricket Club), Martin è morto il 24 febbraio 2013 lasciando la moglie Vera, i figli Mick, Con Jr., Edward e Phillip, le figlie Mary, Elizabeth e Susan.

Ar Dheis De go dti anam,

L’Editore

Rugby, tra realtà e luogo comune

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Il rugby è lo sport dei veri uomini, onesti e generosi; il calcio è lo sport dei ricchi viziati, venduti e simulatori. Il rugby è letteratura, un grande classico; il calcio è spazzatura, un instant book.

Abbiamo chiesto a tre dei più validi autori che quotidianamente si occupano di rugby un parere sulla differente percezione di rugby e calcio che permea la vulgata. Una differenziazione totale, massimalista, ontologica: il rugby è purezza, il calcio è sporcizia. Sarà vero? Cerchiamo di gettare un raggio di luce su miti, archetipi, verità, menzogne e banalità che affliggono il discorso comune sul rugby.

Hanno gentilmente risposto:

Duccio Fumero, curatore del blog Rugby 1823 ospitato da Blogosfere (e tante altre cose).

Davide Macor, vulcanica mente di Non Professional Rugby (e tante altre cose).

Elvis Lucchese, uno dei più validi scrittori di rugby (e tante altre cose).


Un luogo comune tutto italiano vuole che il rugby e i rugbisti siano “diversi” da calcio e calciatori. I primi vengono percepiti come atleti leali, colti, “puliti” e “sportivi”, mentre i secondi sono imbroglioni, furbi, simulatori, ignoranti e rappresentanti di un’Italia stereotipata e retrograda. Addirittura gli sport stessi assurgono a paradigma di questi valori e comportamenti. Cerchiamo di mettere in chiaro quali delle differenze percepite sono reali: in quali aspetti a tuo avviso c’è una vera differenza tra i due sport e i loro praticanti?

Fumero: Nasce prima l’uovo o la gallina? La domanda classica torna prepotente anche quando si cerca di paragonare il rugby al calcio, i suoi valori con i disvalori che, ormai, spesso accompagnano la palla tonda. Ma il rugby è veramente superiore al calcio per dna? O i rugbisti sono superiori ai calciatori? O, invece, è l’ammantare il rugby di questi valori e di questa capacità etica e istruttiva a renderlo, nel tempo, più appetibile a chi è eticamente superiore? Secondo me tra i due sport non vi sono, di fondo, reali differenze. Alla base. È stato il tempo, il professionismo, le derive, la difesa di certi valori ad ampliare la forbice tra rugby e calcio. Una forbice che rischia di allargarsi ancora, proprio perché la percezione del rugby come sport “pulito” porta ad avvicinarsi al gioco chi viene da famiglie con valori etici superiori e una classe socioculturale medioalta.

Macor: Allora differenze ce ne sono, questo è sotto gli occhi di tutti. A mio parere, però, negli ultimi anni si è “mitizzato” troppo il rugby, a discapito proprio dell’immagine “pura” con cui era arrivato sui “grandi palcoscenici”. L’unica vera differenza tra i due sport, a mio parere, sta in certi aspetti che rendono la palla ovale più alla portata di tutti, rispetto al calcio, sport bellissimo, ma gestito da persone maggiormente interessate ai propri interessi, piuttosto che al bene dello sport e degli sportivi. Sostanzialmente, poi, la differenza tra calciatori e rugbisti, fuori dal campo da gioco, sta nei soldi: il “vil denaro”, cambia persone e comportamenti. L’errore a questo punto, come in tutte le cose, è quello di fare “di tutta l’erba un fascio”; non tutti i calciatori sono sbruffoni, come è vero che non tutti i rugbisti sono dei simpaticoni, ma questo penso sia una cosa normale, in ogni aspetto della vita.

Lucchese: Il rugby è uno sport di intensi scontri fisici e il rispetto delle norme che regolano la violenza è indispensabile – come ad esempio nel pugilato – per garantire l’incolumità dei partecipanti, per limitare l’aggressività e per evitare la degenerazione alla rissa da saloon. Il rugby ha potuto conservare quella marcata etica vittoriana che originariamente aveva in comune con il “fratello” football grazie ad una diffusione nel mondo in fondo limitata e soprattutto grazie al ritardo – di quasi un secolo rispetto al calcio – nell’adozione del professionismo vero e proprio. L’approdo al paradigma rugby/fair play in opposizione al calcio/frode è ovviamente un passaggio indebito, una ingenua semplificazione. Si tratta peraltro di una interpretazione del rugby solo italiana, ed anche in Italia sviluppatasi solo di recente parallelamente alla crescita di interesse del grande pubblico maturata dal 2000 (ingresso nel Sei Nazioni) e in particolare dal 2007 (due vittorie azzurre nel torneo). Una interpretazione che secondo me si fa strada in controluce, cioè per definire l’aspirazione di uno sport diverso rispetto al calcio ormai guastato dagli interessi miliardari, piuttosto che da una conoscenza da vicino del mondo del rugby. Va sottolineato che in Italia una percentuale molto bassa del pubblico generico ha praticato lo sport della palla ovale, che nei paesi protagonisti a livello internazionale è invece ampiamente diffuso anche nel sistema scolastico. Nella storia del rugby entra a pieno diritto anche una lunga serie episodi di violenza, di simulazioni, di imbrogli sospetti appurati o sospetti. D’altra parte non è attraverso il fair play che i rugbisti rappresentano il proprio sport, sia in Italia che nel mondo, nè oggi nè in passato. Per i suoi interpreti a definire l’unicità del rugby è invece la sfera ampia della socialità, in altre parole lo spirito di squadra, l’amicizia, il divertimento. Ciò che più balza agli occhi al pubblico generico, il rispetto nei confronti dell’arbitro da parte dei giocatori, è un aspetto intrinseco all’etica che viene tramandata di generazione in generazione e non basta a legittimare lo stereotipo di uno sport “leale, colto e pulito”, ciò che il rugby non è in sé. Nel caso italiano lo spettatore-medio del rugby oggi appartiene ad una classe media di istruzione universitaria e si ben predispone quindi a convalidare l’idealizzazione di uno sport migliore e un po’ speciale (autoconvalidandosi così come gruppo sociale).

In che modo il comportamento delle federazioni internazionali e nazionali (le punizioni e l’entità delle stesse, la tolleranza e l’intolleranza rispetto a certe questioni) e degli arbitri traccia una differenza tra i due sport?

Fumero: In questo solco si inserisce anche una volontà di pulizia che, col tempo, si è resa più forte nel rugby che nel calcio. L’esempio più palese è l’utilizzo del TMO, un’ovvietà nel rugby, ma che il mondo del calcio e chi lo governa non accetta e non vuole. Perché? Difficile a dirsi, ma di sicuro un brutto segnale per uno sport che deve cambiare rotta. Così, nel rugby il rapporto con le polemiche, quindi con gli arbitri e le squalifiche, è molto attento, puntando sulle potenzialità educative dello sport anche a livello professionistico.

Macor: Quello che si percepisce è che al mondo del calcio è concesso tutto e che non c’è assolutamente rispetto per i valori che dovrebbero caratterizzare ogni sport: sportività e disciplina, su tutti. Uno dei fattori, invece, che ho sempre apprezzato nel rugby è che il regolamento è un dogma, un qualcosa che, nonostante tutto, viene seguito ed eseguito alla lettera. L’arbitro in campo è una figura che si può odiare, in ogni caso, però, bisogna rispettarlo e il suo parere, condiviso o meno, è indiscutibile (da ricordare la lezione dell’arbitro gallese Nigel Owens, che redarguiva il mediano di mischia della Benetton Tobias Botes, perché parlava troppo). Il comportamento delle federazioni è in evoluzione costante e gli interventi sulla casta arbitrale con sempre più corsi di specializzazione e aggiornamento sono sotto gli occhi di tutti (sempre più direttori di gara italiani entrano nei ranghi dell’Irb). Bisogna investire tanto sull’aspetto tecnico, quanto su quello arbitrale. Alzando anche il livello degli arbitri, infatti, tutte le partite saranno sempre più piacevoli da vedere e il gioco avrà un ulteriore miglioramento. Una riflessione rispetto al rugby di cui mi occupo, ovvero quello che comprende le categorie di serie B e C, è doverosa: sarebbe opportuno mandare alle partite una terna arbitrale e non l’arbitro da solo. In questo modo, tutti gli incontri, potrebbero essere meglio gestiti e ne guadagnerebbe tutto il movimento.

Lucchese: L’atteggiamento dell’IRB si distingue per un certo dinamismo (di stile molto anglosassone) verso le modifiche regolamentari. Alcune di queste modifiche, come l’adozione della moviola in tempo reale (TMO), vanno nella direzione della massima trasparenza verso il pubblico e gli attori del gioco. Ciò che tuttavia è davvero decisivo nel rapporto fra giocatori e arbitri è il clima di collaborazione presente a vari livelli. Nel rugby professionistico giocatori e arbitri spendono molto tempo lavorando insieme sull’approfondimento e l’interpretazione delle norme del gioco (spesso davvero complesse). La prossimità fra arbitri e giocatori anche nei momenti di aggregazione porta talvolta a relazioni di amicizia, e comunque sempre a rapporti di conoscenza reciproca e ad occasioni di dialogo. Arbitri e giocatori non si vedono quindi in opposizione ma come partner impegnati nella buona riuscita di uno spettacolo. Il fair play è intanto diventato per il rugby italiano e internazionale un importante valore di marketing (le aziende hanno interesse ad abbinare il proprio nome ad uno sport percepito come “pulito” e “leale”). La politica degli organismi che governano la palla ovale sarà dunque sempre più rivolta a rafforzare un’immagine di questo tipo.

Credi che la recente introduzione del professionismo nel rugby incida sulla differenza tra i comportamenti dei rugbisti e dei calciatori?

Fumero: Non credo che il professionismo nel rugby abbia, sostanzialmente, cambiato lo status quo, proprio perché vi è una volontà dell’intero movimento mondiale a difendere le proprie peculiarità.

Macor: Il professionismo nel rugby ha fatto più danni che altro, secondo il mio modesto parere (io ho smesso di divertirmi nel momento in cui i soldi hanno iniziato a “girare”). O per meglio dire, i grandi poteri hanno deciso di passare al professionismo in un momento in cui il movimento si stava evolvendo e non era ancora pronto “al grande salto”; i risultati, poi, parlano da soli. Le franchigie, ad esempio, hanno innalzato l’interesse attorno a questo sport (più che altro la Benetton), ma hanno oscurato e distrutto tutta una serie di campionati minori; vedi Eccellenza e la stessa serie A, che dagli anni in cui ci giocavo anch’io (appena tre stagioni addietro) hanno abbassato il proprio livello in maniera incontrollata. Concludo citando Stefano Benni, cultore del calcio e semplice appassionato di rugby che, in un’intervista che ho avuto la fortuna di fargli, mi congedò dicendomi: «Il rugby sta crescendo (giustamente) nell’interesse dei media,  ma non tanto nei risultati… mi sento di consigliare ai ragazzi della nazionale meno foto e più fiato». Riflettiamo…

Lucchese: Il professionismo, a cui è abbinata un’esposizione mediatica assolutamente inedita, sta erodendo l’etica tradizionale del rugby. Da una parte l’esibizione del corpo – ovviamente sconosciuta nel rugby del passato – rientra in codici della virilità che sono radicalmente mutati nella cultura di massa contemporanea, dall’altra oltre che nell’estetica anche nei comportamenti i rugbisti diventano sempre più vicini a quelli dei calciatori. Fino a pochi anni fa, ad esempio, l’esultanza dopo una meta era considerato un gesto inaccettabile, di affronto verso gli avversari. In sostanza si è compiuto il passaggio da “sport per il piacere dei giocatori”, così come è stato inteso il rugby per oltre un secolo, a uno sport rivolto essenzialmente agli spettatori (allo stadio o più spesso davanti alla televisione), come ogni altra disciplina professionistica.

Credi che le federazioni internazionali e nazionali di rugby siano meno “schiave”, anche economicamente, dei loro “campioni”?

Fumero: Più che dei campioni, il problema è il rapporto tra le federazioni e i club, soprattutto in Inghilterra e in Francia dove i due poteri si equivalgono. Nei Paesi emergenti – Italia compresa – il peso della nazionale è ancora troppo forte per permettere a campioni o club di avere più di tanta voce in capitolo.

Macor: Penso che non lo siano. Anche nel mondo del rugby marketing e pubblicità la fanno da padrona e così, di conseguenza, le Federazioni ne traggono inevitabilmente dei vantaggi. Pensiamo all’Italia: perché un non conoscitore di rugby va a vedere il Sei Nazioni, o un test match? Semplice: perché si ricorda delle pubblicità del simpatico Castrogiovanni, delle comparsate tv dei fratelli Bergamasco e dei calendari svestito del buon Parisse. Questa, per un movimento che sta di fatto nascendo, come quello italiano è, senza ombra di dubbio, una fortuna, però mi piacerebbe che le persone non si soffermassero solo a quello e provassero a capire, veramente, cosa vuol dire essere un rugbista. Ad ogni modo, da tutto questo le Federazioni traggono numerosi favori, di sponsor e visibilità; per cui, più in piccolo, possiamo ben dire che sono anche loro schiave dei propri campioni.

Lucchese: Non conosco la situazione di altri sport, ma nel caso del rugby sono spesso i giocatori ad essere schiavi delle federazioni e dei club che costituiscono i loro “datori di lavoro”. Al di là di una ristretta élite di campioni con lucrosi contratti, esiste un gruppo numeroso di atleti professionisti che costituiscono il vero labour dello spettacolo-rugby, che hanno scarse tutele e scarsi diritti in uno sport sempre più logorante dal punto di vista fisico (e con carriere dunque sempre più brevi). E’ ciò che viene chiamata in gergo “carne da macello”: ragazzi, ad esempio, provenienti dalle isole del Pacifico e spremuti nei tornei europei per contratti che comunque non danno garanzie per il loro futuro extrasportivo, esposti al rischio di una interruzione della carriera a causa di un infortunio grave.

Vedendo i due sport dall’esterno sembra che ci sia una netta differenza di introduzione del bambino/ragazzo allo sport: l’approccio al calcio è di tipo professionale sin da quando l’atleta è solo un bambino, mentre il rugby è vissuto più come un passatempo, uno sport che difficilmente “ti dà da vivere”, e di conseguenza lascia più spazio alla vita del bambino/ragazzo. Sei d’accordo? Incide anche questo sulla differente crescita di un calciatore rispetto a un rugbista (e quindi sull’uomo-atleta che sarà)?

Fumero: Sicuramente le aspettative economiche incidono, ma oggi il rugby può dare da vivere, ad alto livello, quindi non è solo questo. Come già detto, la percezione socioculturale, etica ed educativa diversa tra rugby e calcio spinge anche diverse tipologie di genitori ad avvicinare i figli a uno o l’altro sport. Chi in casa viene educato secondo certi valori viene spinto viene determinati ambienti, anche sportivi; chi viene educato secondo altri valori viene spinto verso altri ambienti e altri sport. La crescita mediatica del rugby, abbinata agli scandali calcistici degli ultimi 10 anni, ha portato molti genitori di livello socioculturale medio-alto a “scoprire” la palla ovale e ha fatto crescere il numero di minirugbisti proprio nelle zone più “borghesi” del Paese.

Macor: Io ho iniziato a giocare a rugby alla tenera età di cinque anni e questo sport mi è servito, davvero, come scuola di vita; questa è una frase fatta, ai giorni nostri, ma crescere nel rispetto dei compagni, dell’avversario e percependo il fatto che solo con l’aiuto di tutti e ventidue i giocatori in squadra si potranno raggiungere certi obiettivi, non è cosa da poco. Inoltre il settore propaganda, che se non sbaglio arriva fino all’U14,  offre solo concentramenti e non partite ufficiali, per cui si gioca per crescere e non per competere. Poi non bisogna fare di “tutta l’erba un fascio” (ribadisco) perché anche il calcio è uno sport formativo e fondamentale per la crescita di un bambino; però, a volte il miraggio del professionismo dorato crea troppe aspettative e sono gli stessi genitori a non vederlo più come un divertimento, ma come un vero e proprio “lavoro”, perdendo di vista che lo sport da piccoli deve essere solo un divertimento.

Lucchese: Naturalmente i baby calciatori subiscono molte più pressioni di qualunque altro bambino sportivo, ma non vedo comunque alcuna specificità nell’approccio al rugby. Nei club italiani l’avviamento alla palla ovale del bambino è lasciato molto spesso all’improvvisazione (con alcune notevoli eccezioni che però non costituiscono sistema). Sottolineerei invece che i minirugbisti, come tutti i giovani atleti delle altre discipline, sono esposti a tutti i rischi derivati dalla grave mancanza nella nostra società di una diffusa cultura sportiva. Poiché si tratta di una istanza importante per i cittadini tutti, forse dovremmo farci portavoce di un movimento civico che adotti come simbolo la difesa dell’educazione fisica nella scuola italiana, che rappresenta secondo me l’aspetto più drammatico della questione.

Capitolo tifosi: non si sente mai parlare di atti di violenza da parte di tifosi o atleti su un campo di rugby. Accadono e sono accaduti in passato? Quali sono a tuo parere le differenze di mentalità e atteggiamento tra un tifoso di rugby e uno di calcio? Credi che l’ossessione dei media per il calcio incida sull’atteggiamento dei suoi tifosi e credi quindi che la scarsa esposizione mediatica del rugby lo preservi da certi episodi di violenza?

Fumero: Questo, invece, lo vedo come un “falso mito”. La violenza nel calcio ha poco a che fare con il calcio e si rifà più a motivi economici e politici che nulla hanno a che fare con lo sport. Il tifo “caldo” esiste anche nel rugby, ma gli interessi – anche criminali – che ruotano intorno al mondo degli ultras del calcio fanno la differenza che, quindi, poco ha a che fare con i due sport.

Macor: Fatti di violenza possono capitare ovunque, per cui neanche il mondo del rugby ne è privo. Il tifoso di rugby, tuttavia, vive per godersi la partita e “vada come vada sarà un successo”. Il tifoso del calcio, invece, vive per la partita, creandosi aspettative e illusioni che se poi non vengono rispettate gli danno il diritto (secondo quello che vedo) di sfogarsi contro la tifoseria avversaria e tutto quello che li divide. A mio parere il calcio è uno sport bellissimo, che però viene vissuto come un motivo di vita e non, appunto, come una pratica sportiva, un divertimento. I media fanno il proprio lavoro e il calcio, in Italia e nel mondo, è un business per cui l’attenzione è inevitabile, ma questa non è una giustificazione alla violenza negli stadi. Poca attenzione per il rugby? A livello di campionati nazionali forse, ma non ci si picchierebbe comunque (questione di stile); per quanto riguarda la nazionale i numeri dei recenti test match parlano da soli in quanto ad affluenza di pubblico e copertura mediatica, eppure atti di violenza non ce ne sono stati, nonostante l’Italia abbia perso due partite su tre, una anche “per un soffio”. Concludendo penso che, oltre ai tifosi, dovrebbe essere il sistema calcio a cambiare: troppi soldi, troppi benefit, troppi capricci, troppe agevolazioni… se si tornasse a concepire il calcio come uno sport, tutto potrebbe volgere al meglio.

Lucchese: Gesti esasperati dalla rivalità sono accaduti, ma il rugby rimane al riparo da episodi di violenza per motivi ai quali si è già accennato in precedenza: l’etica intrinseca al gioco, la diffusione relativamente scarsa, l’estrazione di classe medio-alta del suo pubblico. La questione, secondo me, andrebbe posta altrimenti, cioè domandandosi perché certi episodi accadono nel calcio (non perché non accadono nel rugby).

Qualcuno di tanto in tanto sussurra che ci siano meno scandali nel rugby poiché le federazioni adottano un atteggiamento “don’t ask don’t tell” quando addirittura non insabbiano questioni scomode. È vero?

Fumero: Questo, ahimé, vale in tantissime federazioni, in Italia e all’estero. Diciamo che, soprattutto, vi è un maggior interesse mediatico nei confronti del calcio che porta la stampa a dare un peso maggiore agli scandali della palla tonda, mentre vi è un disinteresse diffuso verso la “politica” negli altri sport. Scandali, gossip e problemi vengono spesso ignorati più dalla stampa che nascosti dai diretti interessati.

Macor: Rispetto a questa cosa concordo: se nel rugby c’è tanto rispetto e benevolenza per molte cose, dall’altro lato come si suole dire “i panni sporchi si lavano in casa”. Molti eventi negativi legati a questo mondo vengono prontamente insabbiati dalla Federazione di turno, oppure è proprio lo “spogliatoio” (capitano e senatori) a coordinare e risolvere la problematica o lo scandalo, non facendolo nemmeno uscire dalle mura dello stadio.

Lucchese: Non saprei dire se la pratica don’t ask don’t tell sia più o meno presente nel rugby che in altri sport. Il rugby professionistico è sottoposto a pressioni nella misura degli interessi che coinvolge e l’IRB e le varie Federazioni hanno dimostrato spesso di subire il diverso peso politico dei vari partner (si pensi alle scandalose iniquità del calendario dei Mondiali).

Concludiamo in bellezza con il capitolo doping: se ne parla molto nel calcio (in relazione soprattutto ai pochi casi acclarati), mentre nel rugby pare non essere un problema. Assistiamo, però, a sviluppi muscolari e fisici in alcuni casi impressionanti. Qual è la situazione reale?

Fumero: Questo è, forse, il più grave problema del rugby moderno. La stessa Associazione mondiale dei rugbisti professionisti ha attaccato la Wada perché troppo impegnata a lottare contro il consumo di droghe leggere (come la cannabis) a discapito di una vera lotta al doping prestazionale. Il problema doping nel rugby esiste ed è una bomba a orologeria che rischia di esplodere.

Macor: Sinceramente… il doping nel rugby esiste. Possiamo definirlo “mirato”, nel senso che viene praticato fuori stagione, quando i campionati sono fermi e non si hanno strascichi quando le competizioni iniziano. Mi sento di dire solo questo in merito.

Lucchese: La questione del doping, in termini generali, è molto complessa (e, credo, anche molto fraintesa). Sintetizzo per brevità, ma sarebbe necessari ampi approfondimenti. Di certo dove c’è sport professionistico c’è anche il ricorso a farmaci per migliorare le prestazioni fisiche. L’uso di farmaci è diffuso anche nel rugby professionistico, come dimostra peraltro la casistica piuttosto ampia delle positività ai controlli anti-doping, mentre non si può sottovalutare il ruolo protagonista del Sud Africa nello scenario della palla ovale (a causa di un vuoto legislativo il paese è ritenuto uno dei crocevia dei traffici mondiali di sostanze dopanti). L’IRB ha varato il programma “Keep the rugby clean” in linea con l’esigenza – dettata dal marketing – di dare alla disciplina un volto sano e pulito, ma di fatto i controlli nel rugby professionistico restano decisamente blandi. E’ ridicolo che negli ultimi Mondiali i controlli siano stati annunciati pubblicamente in anticipo (eppure hanno fatto registrare un caso di positività). Di fatto nessuna lotta seria al doping verrà mai condotta fintantoché gli interessi del controllore coincideranno con quelli del controllato (e i mezzi a disposizione della Wada sono ancora troppo limitati). Dal mio punto di vista, sono poco interessato a comprendere se il doping influisca sui risultati, mentre la questione più rilevante è invece la nocività per l’atleta. Essendo uno sport professionistico da poco tempo, per il rugby non è disponibile neppure una adeguata casistica per studiare gli effetti a lungo termine dei farmaci sulla salute degli atleti.

L’Editore, ma in massima parte Duccio Fumero, Davide Macor, Elvis Lucchese.

Il futuro dello sport

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Benché la produzione di Panoptikon sarà incentrata sul passato dello sport cogliamo l’occasione di questa fine d’anno per gettare uno sguardo sul futuro: come si evolverà lo sport? Non si possono avere certezze in merito, ma ugualmente è possibile fare alcune considerazioni alla luce delle strade intraprese nel presente.

Dobbiamo innanzitutto distinguere tra le due grandi tipologie di sport: quelli individuali e quelli di squadra. Lo sport individuale – prendiamo come paradigma l’atletica – è solitamente votato al raggiungimento della prestazione fisica immediata (la corsa più veloce, il salto più alto, …), mentre nello sport di squadra le variabili atletiche e tecniche individuali si intersecano determinando una prestazione collettiva che a sua volta determina solo parzialmente il risultato finale. È quindi evidente come la prestazione nell’atletica sia “limitata” inderogabilmente all’unica variabile della capacità fisica umana, una risorsa “finita” per così dire, al contrario dello sport di squadra che prende questo parametro e lo utilizza come una delle tante variabili del gioco.

È facile comprendere come gli sport individuali debbano ricorrere a “stratagemmi” per garantirsi un futuro dopo ogni record: a Johnson deve succedere Bolt e a questi deve succedere qualcun altro. Per garantirsi un futuro l’atletica ha deciso di ricorrere ai “freaks”. Man mano che passa il tempo il miglioramento della prestazione massima è sempre minore; questione di dettagli. Bolt è alto un metro e novanta centimetri, quasi dieci centimetri più di Michael Johnson, e un metro è occupato dalle sole gambe. Ne risulta una falcata di circa due metri e mezzo che gli garantisce di poter completare 100 metri con una quarantina di falcate. Può dunque avere tutti i difetti tecnici che vuole finché mette in fila quaranta falcate da due metri e mezzo. Ugualmente, però, Bolt migliora il record sui 200 metri di Johnson (19.20 contro 19.22) dello 0,1%, ovvero di soli 20,7 centimetri. Maggiore è la distanza e minore è l’incidenza del fisico: a un gigante con una falcata di 100 metri basterebbe il tempo necessario a fare un passo per battere il record, ma avrebbe maggiori difficoltà all’aumentare della distanza da coprire. L’escamotage funziona fino a un certo punto.

Dove non arriva l’escamotage delle gambe più lunghe arrivano le protesi. Il caso di Oscar Pistorius ha smosso opinioni differenti e studi scientifici che hanno dimostrato – forse è meglio dire perorato – tesi opposte. In ogni caso Pistorius nella sua volontà di competere contro atleti normodotati (perdonatemi ma non sono aggiornato sulla terminologia più politically correct del momento) deve affrontare vantaggi e svantaggi. Proprio perché le condizioni di partenza non sono uguali per tutti – o per lo meno assimilabili – non sembra giusta la decisione del CIO di farlo competere coi normodotati. Ma sicuramente agli sponsor e ai telespettatori, che potevano gustarsi la Storia (in salsa “io c’ero”/”clicco mi piace”) e la corsa del freak comodamente in poltrona senza nemmeno doversi sorbire Barbara D’Urso, è sembrata giusta.

Questa è dunque la strada intrapresa dall’atletica e simile è quella che ha deciso di seguire la Formula Uno. Con un regolamento kafkiano, trionfo di puro onanismo burocratico, la corsa alla macchina più veloce è sfociata in una pista elettrica in scala 1:1 che ricorda gli scacchi umani. Le macchine sfrecciano veloci, velocissime, sul binario loro preposto e il sorpasso, rigidamente regolamentato, dipende da mezzi tecnologici: se soddisfi i requisiti puoi premere il bottoncino del turbo. Supercar non era un telefilm un po’ pacchiano, era un precursore.

Il re degli sport di squadra, il calcio, non se la passa meglio. Abbiamo assistito quest’anno alla farsa del record di Messi: nonostante non sia stato omologato dalla FIFA – per non subire l’onta di avere un record detenuto da un africano invece che da uno dei tanti pseudo-campioni di regime – per i media continua a esistere e viene citato in questi giorni in tutti i resoconti di fine anno. Proprio i media detengono in ambito sportivo il potere dell’immediato futuro come uniche espressioni “d’informazione” e storicizzazione in grado di intrattenere le masse. Cavalcandone l’emotività si pongono come genitori-amici. E se i media “tradizionali” sono genitori troppo amici dei figli, i nuovi media, blog e siti internet, sono i veri e propri amici. Trascinati dai meccanismi di semplificazione dei social network ci aggreghiamo attorno a chi semplifica. Cristiano Ronaldo ha un triliardo di like – che non fa rima con Nike, ma cambia solo una lettera, – dev’essere per forza un campione.

Infine i Giochi Olimpici. È difficile parlarne, è come descrivere la lenta agonia di un caro amico sulla via del tramonto. La strada intrapresa da decenni (da sempre?) è quella di inserire nel programma sport che possano coinvolgere specifici mercati e accontentino lobby di potere interne ed esterne. La sensazione è che non si possa andare avanti ancora per molto con una manifestazione ridotta a un ridicolo spettacolo di “sport”, definiamoli così, più o meno bizzarri. Anche in questo caso si tratta comunque di una buona occasione per i media d’inventare qualche personaggio che serva da riempitivo durante l’anno.

Qual è il futuro dello sport dunque? RECORD! CAMPIONI! VITTORIE! A solo un euro.

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La vita e il record di Godfrey Chitalu

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Gli inizi e il primo titolo di capocannoniere

Godfrey Chitalu nacque il 22 ottobre del 1947 a Luanshya, nell’allora protettorato britannico – vera e propria colonia – della Rhodesia Settentrionale. Nel 1964 il suo paese divenne il primo a cambiare nome e bandiera tra la cerimonia d’apertura e quella di chiusura dei Giochi Olimpici: quello che si era presentato in Giappone come Northern Rhodesia ottenne l’indipendenza il 24 ottobre, giorno della cerimonia di chiusura, e si accomiatò con la nuova bandiera verde dello Zambia.

Chitalu diede i primi calci al pallone a scuola e in alcune squadre amatoriali della città per poi aggregarsi al Kitwe United nel 1965 e vincere soli tre anni dopo la classifica cannonieri del campionato zambiano con l’incredibile score di 81 reti – insieme al primo dei suoi cinque (altro record) premi come miglior calciatore zambiano dell’anno. Nel 1970 vince la Challenge Cup e l’anno seguente si aggrega ai Kabwe Warriors, i “guerrieri” della città della Provincia Centrale considerata la culla dell’indipendenza zambiana, ma una controversia riguardante il costo del trasferimento gli fa perdere le prime sei partite della stagione. Ugualmente terminerà la stagione da capocannoniere con 41 reti.

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Il record

Il 1972 è l’anno del record, di un’impresa dimenticata dal “calcio che conta” che ha reso Chitalu una figura leggendaria nello Zambia – del quale colpevolmente ricordiamo solo Bwalya – e in tutta l’Africa. Un’impresa ancora più incredibile se pensiamo che in realtà Chitalu segnò più di 107 reti.

Chitalu comincia la stagione il 23 gennaio con una doppietta nel 2-2 contro i lesothiani del Majantja FC, gara valida per l’African Champions Cup, antenata dell’attuale Champions League africana. Nella gara di ritorno al Dag Hammarskjöld Stadium di Ndola (chiamato così in omaggio all’ex segretario generale dell’ONU) piovono reti: ben sette delle nove marcature zambiane sono di Chitalu. Nonostante i resoconti dell’epoca riportassero Chitalu in testa alla classifica dei marcatori esaltandone le qualità realizzative e scrivendo di come in sole due partite avesse già imposto un ritmo tremendo agli altri pretendenti, queste nove reti complessive vennero successivamente tolte dal computo perché segnate quando “la stagione non era ancora cominciata”. Quando la stagione “comincia” per davvero Chitalu aggiunge subito un’altra tacca, la prima ufficiale: Warriors-United 1-0, proprio contro la sua ex squadra.

La cavalcata di Chitalu continua: doppietta alla squadra della polizia, tripletta nel 7-1 al Maseru United, addirittura quattro nel 14-2 contro i Norco Rangers. E continua anche in nazionale: tra le “vittime” il Lesotho, doppietta nel 6-1 valevole per le qualificazioni alla Coppa del Mondo, lo Sheffield United e i cileni dell’Unión Española. Siamo solo ad agosto e dopo l’ennesima doppietta, stavolta da capitano della selezione All Stars, il suo tabellino personale riporta 71 reti.

Due mesi dopo, ottobre 1972, è arrivato a 92 reti battendo così anche il suo record personale di 81 reti segnate nel 1968; tra Chitalu e i due inseguitori – Bernard Chanda dei Wanderers e il compagno di squadra Sandy Kaposa – ci sono 57 reti. Si potrebbe pensare a un calo fisico o emotivo o ancora di concentrazione. Niente di tutto questo, anzi: a questi numeri impressionanti seguono 17 partite consecutive con i Warriors sempre a segno, con picchi di cinque reti a Buseko FC e Roan e ben sette in due partite contro il Mufulira Wanderers, con un poker servito a domicilio.

Il centesimo goal arriva nella vittoria per 4-2 all’Independence Stadium contro il Kalulushi Modern Stars, seguito dal 101esimo e dal 102esimo in una tripletta storica. Segna ancora una doppietta contro il suo ex Kitwe United e una tripletta complessiva nei due match tra Midlands XI e Copperbelt XI validi per il trofeo della National Football League zambiana. Siamo a dicembre e la stagione è finita: un bottino da 107 reti.

I premi in palio sono tutti suoi: quando riceve il premio di capocannoniere attribuisce il successo al supporto dei suoi compagni di squadra che definisce “altruisti”. Il record gli vale un pallone giallo in regalo dallo sponsor Rothmans con il suo nome e il numero di goal segnati incisi sopra.

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Il record partita per partita, una ricerca di Jerry Muchimba

Il ricercatore zambiano Jerry Muchimba ha minuziosamente documentato tutte le reti del record. Ecco il risultato del suo eccezionale lavoro:

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Chitalu e la nazionale

Godfrey Chitalu debutta nel giugno del 1968 nella vittoria per 2-1 contro l’Uganda e nel 1974 partecipa alla Coppa delle Nazioni Africane in Egitto, segnando un goal contro i padroni di casa. Lo Zambia arriva in finale, ma perde contro lo Zaire nella ripetizione resasi necessaria dopo il 2-2 finale del primo match. Nell’aprile del 1975 viene escluso dalla nazionale per due anni: tornerà in campo il 27 febbraio del 1977 grazie al nuovo allenatore della nazionale, il tenente colonnello Brightwell Banda, subentrando dalla panchina e segnando subito due goal nella vittoria valida per le qualificazioni alla Coppa del Mondo proprio contro l’Uganda.

Ancora a segno cinque mesi dopo nella gara di qualificazione alla Coppa delle Nazioni contro l’Algeria, compie i trent’anni festeggiando a suon di reti e vince il premio di sportivo zambiano dell’anno pur non vincendo quello di calciatore dell’anno. L’anno seguente è capocannoniere della CECAFA Cup in Malawi con unici reti, pur perdendo in finale contro i padroni di casa. Nel 1978 partecipa alla Coppa delle Nazioni Africane propiziando con un suo cross il gol di Obby Kapita nella sconfitta contro i padroni di casa.

Ha partecipato ai Giochi Olimpici di Mosca nel 1980 segnando una rete all’Unione Sovietica nella sconfitta per 3-1.

Chitalu è secondo solo a Efford Chabala per presenze in nazionale, 103, ed è il miglior marcatore di sempre con 74 reti. A questi numeri vanno aggiunte cinque partite e quattro goal in match correlati ai Giochi Olimpici. Nel 2006 è stato inserito dalla CAF nell’elenco dei migliori 200 calciatori africani della cinquantenaria storia della confederazione.

Chitalu

Dopo il ritiro, la tragica morte

Chitalu ha vinto il premio di allenatore dell’anno nel 1991 alla guida dei Warriors guadagnandosi l’anno seguente la panchina della nazionale. Purtroppo la tragedia era dietro l’angolo: il 27 aprile del 1993 l’aereo che porta la nazionale zambiana a Dakar per il match di qualificazione alla Coppa del Mondo contro il Senegal precipita al largo delle coste del Gabon. Il motore sinistro aveva preso fuoco e il pilota spegnendo quello destro decretò la morte di tutti i passeggeri: personale di servizio, calciatori, staff, dirigenti e un giornalista al seguito della nazionale.

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Il finto record di Messi e le statistiche nel calcio

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La scientifica costruzione del mito in uno sport sempre alla ricerca di un dio da incensare che moltiplichi tirature e pubblicità non ammette la verità storica e così, dopo mesi di titoli sparati in prima pagina, arrivano le piccole smentite: il record di reti segnate in un anno solare di Messi non esiste.

Cerchiamo di fare, finalmente, un po’ di giustizia sulla questione.

Il record di Messi non esiste per se, in quanto difficile da verificare. Non possiamo tracciare tutti i calciatori della storia di tutti i campionati nazionali di ogni Paese. Nell’ambiente della ricerca si attribuisce il record a Godfrey Chitalu, leggenda del calcio zambiano, che nel 1972 segnò 107 reti, ma lo stesso Pelé dovrebbe aver superato le cento reti in un paio di occasioni (1959 e 1961). La FIFA non riconosce il record di Chitalu ed è facile immaginare come la documentazione in merito sia piuttosto discutibile; la decisione è dunque condivisibile, ma sarebbe opportuno attivarsi per fare chiarezza una volta per tutte. Purtroppo la FIFA non ha interesse a farlo in quanto il calcio africano, figlio di un Dio minore, è il “calcio del futuro” e tale deve rimanere. Pelé viene invece penalizzato dalla definizione di “gara ufficiale” secondo la FIFA, una definizione in continua evoluzione. Purtroppo per il brasiliano le amichevoli di club non vengono considerate ufficiali, così come molte competizioni dell’epoca: non è il caso di dilungarsi sulla questione visto che il dibattito in Sudamerica è tuttora molto acceso, ma basterà citare il fatto che la gran parte dei ricercatori utilizza metodi diversi per definire una gara ufficiale rispetto a quello di matrice più politica che sportiva della FIFA.

Il record di Messi non è significativo. Il numero di reti segnate in un anno solare è un numero che non dice nulla sulla qualità delle stesse e del calciatore. L’argentino ha segnato quest’anno 86 reti in 66 partite con 14 rigori, Müller 85 in 60 partite con soli tre rigori nel 1972. Appare chiaro come le reti del tedesco abbiano un “valore aggiunto” rispetto a quelle di Messi. Si potrebbe poi valutare quanto queste reti abbiano inciso sul risultato finale e in che maniera siano state segnate e tanti altri aspetti (nel 1972 la prassi per l’attribuzione di un autogoal era diversa, ad esempio), esercizi che servirebbero a dare qualità alla quantità.

Tralasciando gli interessi dei media nel record di Messi, è acclarata una carenza di competenza statistica nel calcio, specialmente se paragonato agli sport americani. Da anni porto avanti una battaglia – solo di principio, poiché non essendo abile coi numeri non posso dare un contributo fattivo – per una maggiore consapevolezza statistica nel calcio. Mentre nel baseball da anni si sviluppa la sabermetrica, capace di determinare l’esatto apporto qualitativo di ogni giocatore in ogni posizione, noi siamo fermi da un paio di secoli al binomio presenze-reti (persino le reti subite dai portieri non sono indicate da tutti i resoconti statistici). L’unico passo avanti, quello dei chilometri percorsi dal calciatore, è in realtà un passo indietro trattandosi di statistica assolutamente inutile ai fini del giudizio tecnico o agonistico.

Questa incredibile carenza è conseguenza di vari fattori, primo tra tutti la differente maniera di vivere lo sport: il calcio tocca il lato emozionale degli europei e la statistica è una verità che non si vuole sentire; di contro gli americani hanno un bisogno di “esattezza” (la quale non può che essere ottenuta tramite metodi scientifici) a noi sconosciuto. I media avrebbero il compito di contemperare l’emotività del tifoso e la necessità, il dovere di storicizzazione del mestiere del giornalista, ma sappiamo bene come abbiano abdicato da molti anni al compito e preferiscano cavalcare anch’essi le emozioni. Tiratura non olet.

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Panoptikon e il ruolo dello sport nella cultura

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Uno degli obiettivi della casa editrice Panoptikon è quello di “dare allo sport dignità artistica e culturale”, ma cosa significa esattamente?

Vi sono persone capaci e meritorie che da anni lavorano su questo fronte contribuendo in maniera determinante al riconoscimento dello sport come fenomeno culturale, ma si tratta spesso di singole voci che faticano a imporsi in uno scenario mono-sportivo dominato da media ed editoria di massa disinteressata a certi argomenti. Tuttavia negli ultimi anni il mainstream dello scenario sportivo si sta modificando e finalmente anche in Italia trovano spazio iniziative rivolte a un pubblico vasto: si gettano i semi di una nuova visione dello sport slegata sia dai dettami della cultura “istituzionale” chiusa e autoreferenziale che dall’atteggiamento cinico dei media.

Purtroppo questi semi sovente sono improduttivi, gettati qua e là a generare affermazioni più che dibattito. In questa situazione, quella che potremmo definire “l’emancipazione dello sport” percorre due strade pericolose per la buona riuscita della stessa: la retorica e la nevrosi.

Tutto ciò che viene oppresso e represso tende a generare idoli, totem, tabù al proprio interno: un sistema di valori, conoscenze e convinzioni ritenute intrinsecamente vere, giuste e meritevoli di considerazione che col tempo diventano aprioristiche. Retorica, appunto. Naturalmente secondo l’oppresso non viene compresa l’esattezza delle proprie istanze che ingiustamente vengono represse generando frustrazione e quindi una rivendicazione sempre più aggressiva.

Possiamo quindi aggiungere che l’emancipazione dello sport è nella fase della propria adolescenza: tavolta si contrappone alla cultura rivendicando il proprio ruolo in maniera scoordinata, pretestuosa e pretenziosa, cercando di apparire più grande di quanto non sia; talaltra “elemosina” spazio e legittimazione alla cultura evidenziando legami inesistenti, tentando di rientrare nella “cultura istituzionale chiusa e autoreferenziale” in maniera forzata, ingigantendo questioni minori per apparire elemento decisivo delle “grandi questioni” dell’uomo.

Questi tentativi sono inutili ai fini dell’obiettivo: lo sport non sarà riconosciuto fenomeno culturale in quanto elemento attivo e decisivo di meccanismi storici o politici (culturalmente ritenuti “importanti”), bensì in quanto elemento culturale e sociale, grande o piccolo che sia.

Perché lo sport non è mai stato diffusamente riconosciuto come fenomeno culturale (in Italia)? Perché non hanno mai trovato sfogo i tentativi di tracciarne e rivendicarne il perimetro, una strada percorsa nel “sottobosco” e lì rimasta confinata, senza seguito da chi può realmente influenzare il grande pubblico.

Tanto basterebbe e dunque questa sarà la linea di Panoptikon: inutile e dannoso rifugiarsi nella facile retorica e nel risaputo, così come fare dello sport una questione più grande di quella che realmente è.

Quanti scrittori, quanti filosofi hanno influenzato la società? Ben pochi, non fosse altro che fino a un paio di secoli fa la cultura non arrivava alle masse sociali (se non mediata e distorta). Lo sport deve trovare legittimazione perché è sport, non perché ha servito culture “superiori”: lo sport è cultura in relazione a se stesso, è un universo culturale tanto quanto la letteratura e la politica con valori propri, storie personali e professionali significative, eventi che hanno segnato epoche prima di tutto sportive, elementi che hanno influenzato lo sport stesso evolvendolo e rendendolo cultura.

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Una questione di nomi

Vorrei esprimere la mia indignazione per la telecronaca di Manchester City-Napoli di ieri sera. Forse dovrei indignarmi per altro, ma quando si tratta di sport sono un rognoso, puntiglioso rompiballe. In realtà, poi, non si tratta nemmeno di sport, ma di correttezza e rispetto, d’essere in grado di assolvere almeno le basi del proprio lavoro. Cosa mi ha costretto a cambiare canale dopo un quarto d’ora dall’inizio della partita? Il telecronista, quel maledetto telecronista del quale non riporto il nome poichè non è un suo problema, bensì purtroppo un problema generale di come viene trattato lo sport in Italia; l’ennesimo mattoncino nel muro della cialtroneria, del pressapochismo, del non vedere al di là della vita privata del pseudo-fenomeno (mediatico) di turno. La pietra dello scandalo è la pronuncia del cognome del calciatore slovacco del Napoli Marek Hamšík: il telecronista deve aver notato all’ultimo momento, di sfuggita, quell’accento rivelatore, quell’accento che riscrive la storia della telecronaca italiana, quell’accento così evidente quanto bellamente ignorato. Finora. Hamšík… dunque “Hamsìk” dev’essere la pronuncia corretta! (L’accento lo sappiamo gestire tutti, l’háček decisamente no, per cui possiamo ignorarlo.) E via con novanta minuti di Hamsìk. Non fosse che in ceco ed in slovacco – così come nell’altra maggiore lingua slava occidentale, il polacco – l’accento grafico non corrisponde per forza all’accento tonico. Ovvero: se in italiano leggiamo “però” sappiamo che dobbiamo mettere forza (accentare) nell’ultima sillaba, mentre se leggiamo “pero” sappiamo di dover seguire le regole generali dell’italiano, dove la maggior parte delle parole sono piane (hanno l’accento tonico sulla penultima sillaba). In altre lingue non è così, basti pensare al nome ungherese Ádám: dove lo mettiamo l’accento tonico? In ceco ed in slovacco l’accento tonico cade sempre sulla prima sillaba (come nell’ungherese: dunque “Àdam”), salvo eccezioni che possiamo ignorare non essendo tenuti a sapere tutti i casi particolari di tutte le lingue del Mondo; ergo si legge “Hàmsciik” ovvero (molto) approssimativamente come lo leggono tutti i telecronisti/giornalisti cialtroni senza velleità linguistiche. Si potrebbe pensare che il telecronista semplicemente associ l’accento grafico all’accento tonico, in fondo in italiano è così: bene, allora perchè il nostro ha altresì pronunciato per tutta la partita il colombiano Zúñiga “Zunìga”? E perchè tornando timidamente di tanto in tanto sulla telecronaca della partita ho avuto la fortuna di sentire un “Tevèz” dal bordocampista (termine orripilante, ma tant’è)? Direte: è solo un accento, che differenza fa? È un mio scrupolo eccessivo? Bene, d’ora in poi pronuncerò i vostri nomi con accenti sbagliati, tanto è “solo un accento”, no?

P.S.: parlando sempre del Napoli, molti si chiedono se il cognome del calciatore svizzero Blerim Džemaili debba essere pronunciato “Jemàili” o “Jemaìli”. Džemaili è un “Македонски Албанци”, ovvero è nato in Macedonia da una famiglia di origine albanese (come… Madre Teresa): in macedone l’accento generalmente cade sulla terzultima sillaba (“Jemàili”), mentre in albanese sulla penultima (“Jemaìli”). Sono dunque entrambe valide.

Colgo l’occasione per riportare un breve articoletto sul tema, pubblicato per il terzo numero (febbraio 2011) di Pianeta Sport. Nel nome di Franco Bragagna.

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Messico-Haiti 4-0 per la Coppa del Mondo (1953)

Joe Gaetjens, attaccante haitiano che decise la sfida tra Stati Uniti ed Inghilterra ai Mondiali del 1950, gioca la sua ultima partita internazionale, la prima per la sua nazione di nascita e cittadinanza, valida per le qualificazioni ai Mondiali del 1954. Corriere dello Sport, 29 dicembre 1953.